Sono un veronese atipico. Molto atipico. Sarà che la mia famiglia è originaria tutta da Vicenza e provincia. Sarà che la mia cuginetta preferita vive a Vicenza. Sarà che i miei a casa paralvano il dialetto vicentino e per cui io dico “tosi” (“ragazzi” in vicentino) e non “butei” (“ragazzi” in veronese) e dico “ghe xé” (“c’è” in vicentino) e non “ghé” (“c’è” in veronese). Sarà che non ho mai amato l’Hellas ma sempre il Chievo. Sarà che io sono strano… sarà…
Però difficile non commuoversi andando a Vicenza e vedendo che la gente per strada, al posto di guardare avanti, volge la testa e guarda in direzione del fiume. Lo guarda con una faccia triste e incredula, come di chi si è sentito tradito dall’amico più caro.
Difficile non commuoversi davanti ai segni della piena che ancora raccontano l’alluvione, ai sacchetti della Protezione Civile ai piedi dei palazzi, al ponte Pusterla chiuso e transennato assieme ai suoi negozi e negozianti, agli uffici che ancora oggi pompano fuori l’acqua dagli scantinati.
E poi… e poi c’è questo: